Cecilia Ravera Oneto, 
una pittrice fra glicini e ciminiere 
di Franco Ragazzi 
SilvanaEditoriale 2008 
pagina 3 
 
Parallelamente ai paesaggi industriali l'artista volge il suo interesse verso un nuovo tema, già intravvisto in Labratorio chimico e sollecitato dalla professione del marito. Cecilia ricorda: "Negli anni sessantaprovai altre intense emozioni vivendo a contatto, seppur indiretto, con la sofferenza umana e la malattia. Ero ossessionata dalle sale chirurgiche, dai laboratori scientifici: un altro ambiente del lavoro umano che parlava di una lotta perenne di solidarietà e di coraggio". (nota 18).  
Fra le prime e più significative opere di questo periodo vanno ricordate Ars medica , un grande pannello esposto nella personale alla Galleria Rotta del 1965, che sarà acquistato dall'Università di Genova per l'atrio dell' Istituto di Clinica Medica, e Chirurgia , un'altra grande composizione presentata alla personale torinese del 1967, dedicata alla memoria del famoso chirurgo Mario Dogliotti scomparso nel 1966.  
 
I dipinti sull'ambiente ospedaliero e scientifico, sicuramente fra i più difficili della sua carriera artistica, con i colori acidi e vividi, l'algido espressionismo delle figure inquietanti che occhieggiano dietro a maschere, occhiali , caschi, ossessivi come l'ossessione di Cecilia, saranno oggetto di un'attenta lettura critica da parte dello storico dell'arte Giorgio kaisserlian, e troveranno la loro "sistemazione" teorica nella mostra personale allestita nel 1975 alla galleria "Il Vicolo" di Genova, con la presentazione in catalogo di Germano Beringheli, il critiico d'arte che più di ogni altro seguirà dagli anni settanta in poi il lavoro della pittrice.  
Il fare pittorico di Cecilia Ravera Oneto, che si era già "raffreddato" nei paesaggi dell'Italsider, ora si congela. Il suo realismo si allontana dalla rappresentazione del reale per avvicinarsi, con ascendenze prossime alla "nuova figurazione", a un realismo esistenziale affidato a immagini di notevole crudezza con cui rappresenta la sofferenza, il disagio, la fatica di vivere, attraverso la restituzione delle proprie emozioni mediate, in particolare nel "taglio" delle composizioni, dalla suggestione dei mass media visivi, della fotografia, del cinema e della televisione.  
Giorgio Kaisserlian, uno dei maggiori sostenitori critici della "nuova figurazione", autore di una importante monografia su Cecilia, subito dopo la nascita di questa stagione osserva: "Il lavoro della nostra pittrice è andato più avanti, più a fondo, in un'altra direzione nella rappresentazione di situazioni della vita medica: qui, infatti, la pittrice è riuscita a superare lo spazio rappresentativo naturalistico. Quei visi ansiosi e sofferenti che si affollano tutti in primo piano, quella luce fatata che sembra piovere sulle mani demiurgiche del chirurgo (...) appartengono ad una situazione esistenziale, che ha bisogno di uno spazio nuovo e di nuove espressioni per esibirli veramente. Di queste cose la pittrice è ben consapevole (...) Trasmutare un vedere tutto presente come un seguito di cose, in un vedere tutto teso come un campo di battaglia ove delle forze avverse si affrontano, ecco l'impegno che la nostra pittrice si è scelto, la via sulla quale decisamente si è messa. Diciamolo pure: essa è la via regia della nuova figurazione".(nota 19)  
Per chi vuole ancora sostenere che a Cecilia Ravera Oneto non interessino le questioni sociali e la condizione esistenziale dell'uomo, è sufficiente osservare queste opere e leggere quanto scrivono Franco Passoni e Germano Beringheli.  
 
"L'etico e il poetico , nei dipinti di Cecilia Ravera Oneto, si fondono insieme per segnare i momenti di un discorso socialmente impegnato con una volontà quasi accanita di voler raccontare senza mistificazioni il codice di una condizione che, fatalmente, rientra nel nostro presente operante sotto il segno della lotta."( nota 20)  
"L'inclinazione è per una presenza figurativa concentrata focalmente nello spazio di un 'avvenimento' e di un 'ambiente' chiusi in loro, solidificati in una significazione cromatica la cui luce - esplosa tra i verdi e gli azzurri turgidi, gli ocra calcarei, i bianchi gelidi e marginata dai neri che annodano la sua spazialità - riverbera opprimente e drammatica manifestando i modi dell'animo. E' in questo che la pittrice- la quale possiede indubbiamente una notevole energia di espansione plastica - sembra avvertire il quadro come luogo in cui porre tutta l'inquietudine, tutto il dramma della solitudine che coglie l'uomo ingabbiato nella macchina di precisione, prevaricato dall'oggetto scientifico, labilizzato dalla maschera esterna che ne occupa la soggettività. (nota 21)  
Quando l'artista volge nuovamente il suo interesse fuori sdalle camere operatorie, ritornando al paesaggio, l'esperienza appena compiuta non risulterà inutile. Nella seconda metà degli anni settanta Cecilia Ravera Oneto dipinge nel porto container di Genova.  
Cecilia racconta: "Passavo lunghe giornate seduta sulle banchine, in un ambiente che sembrava freddo, quasi metafisico. Di fronte avevo quelle enormi architetture dai bei nomi, ("paceco", "cavaliere") da cui partivano forme ferrigne, mostruose mani che sollevano container come scatole da gioco".(nota 22)  
Rispetto ai paesaggi industriali degli anni sessanta, nei quali non si avvertivano apprezzabili diversità tecniche con i paesaggi naturali (si pensi a Vallate , presentato al Premio Mugello del 1960, o alle prime Scogliere della seconda metà del decennio), ora muta totalmente il registro espressivo dell'artista.  
Credo che Cecilia non abbia mai amato i mass media, ma li conosceva, li studiava , e quando erano funzionali, alle sue esigenze espressive, li usava.  
I media sono entrati nella sua vita, come in quella di tutti, anche contro la sua e la nostra volontà. Essi hanno cambiato il modo di vivere, di guardare e di percepire, e la pittura, da quando esiste, si basa sul modo in cui guardiamo e percepiamo ciò che ci circonda.  
Nel taglio delle immagini, nella scelta dei soggetti e dei colori degli impianti portuali dipinti dall'artista si avvertono le suggestioni della fotografia e della televisione. Cambiano gli angoli visuali delle composizioni , la forza espressiva dei soggetti, la stessa gamma cromatica che , favorita dall'impiego degli acrilici, dalle tenuità dei paesaggi "pittoreschi" acquista cromie "urlate", evidenti, chiassose, proprie dei macchinari presi a modello. Il mistero "romantico" dei titoli, Il cavaliere, Paceco, nomi tecnici delle gigantesche attrezzature impiegate per la movimentazione dei container, è sottolineato dall'arditezza dei colori, dalle campiture cupe dei cieli e dal mare su cui si stagliano i rossi e i gialli di esseri mostruosi..  
La pennellata è compatta, intensa , ma più asciutta. Forse è in questo momento, tra l'interesse semantico per le strutture circolari degli interni ospedalieri e lo schematismo sintetico dei paesaggi portuali che si possono rilevare le maggiori tracce di astrazione nel suo percorso artistico.  
Il contrasto dei blu, gialli , rossi sono scoperti da Cecilia nelle banchine del porto di Genova, prima tappa di una nuova libertà espressiva e coloristica che ricongiungerà la pittrice con il paesaggio naturale. credo infatti che non sia casuale se a questa raggiunta libertà corrisponda un concitato espressionismo che, all'inizio degli anni ottanta, la porterà a vedere, a sentire e a raccontare in modo radicalmente nuovo il suo rapporto con la natura.  
nascono attorno al 1980 grandi tele con paesaggi di mare, scogliere, ulivi, giardini fioriti, glicini, ginestre. Saranno le opere che, punteggiate da qualche rara figura- ritratti di amici, dei nipotini, autoritratti singoli e plurimi, composizioni religiose fra le quali va ricordato il grande dipinto San Francesco e il lebbroso (1982), delle collezioni d'arte della Banca Carige di Genova-, nasceranno negli ultimi decenni della sua vita.  
 
 
Quando conobbi Cecilia Ravera Oneto dipingeva nel porto container, ma cominciammo ad incontrarci e a discutere della sua pittura soltanto quando ritornò al paesaggio naturale. Vedevo in quella pittura un'idea di paesaggio, un'immagine fondamentalmente mentale nata dall'evocazione, dal ricordo dei luoghi vissuti nell'infanzia, dalla memoria; non necessariamnete un'idea nata dall'osservazione e dalla pittura del vero, quanto dall'indagine introspettiva dell'artista che la portava a esiti prossimi a un astratto espressionismo in cui ravvisavo una forte tensione emozionale derivata da un'intensa spiritualità. Cecilia, invece, dissentendo dalle mie opinioni, insisteva nella sua esigenza di vedere e vivere il paesaggio nelle diverse condizioni di giorno e, se necessario, anche di notte, d'estate e d'inverno, con il bello e il brutto tempo. Sapevo del dramma vissuto nel 1978 con la scopmparsa del marito, e di come lei avvertiva anche da quella tragedia il bisogno di tornare alla pittura di espressione e di sentimenti di qualche decennio prima. Un bisogno dal quale non era assente un'aspirazione alla leggerezza e alla trascendenza che , forse, non dissimulava neppure troppo una sorta di fuga dalla realtà , quando, in quel momento, la realtà significava soprattutto dolore.  
 
Cecilia si rimette a dipingere paesaggi e ritratti, ma i modi, il pensiero, il gesto pittorico e i colori sono completamente nuovi e diversi.  
Torniamo ai ricordi di Cecilia:" Sentii il bisogno di tornare ai primi soggetti: i ritratti, il paesaggio di Liguria. Ma ero cambiata. Gli ulivi sembravano ossa contorte, mentre li dipingevo non vedevo più il lirismo della giovinezza, ma avvertvo il respiro di chi li aveva piantati tanto tempo prima, i miei nonni, i bisnonni. Negli autoritratti mi scavavo dentro alla ricerca di quello che era rimasto. Fino ai più recenti, quelli degli anni novanta, ambientati in una notte illuminata da sprazzi di luce, nel vento, ma ancora pieni di speranza. Poi , un giorno, l'improvvisa rivelazione dei nostri monti, il loro vestirsi di giallo, il tenue profumo che non avevo mai avvertito. Li avevo sempre conosciuti senza vederli. Un tuffo insieme alle ginestre e ai glicini, in una nuova giovinezza. (nota 23)