Cecilia Ravera Oneto, 
una pittrice fra glicini e ciminiere 
di Franco Ragazzi 
SilvanaEditoriale 2008 
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C'è una fotografia di Cecilia Ravera Oneto, pubblicata da "Cornigliano notizie" dell'agosto 1963, che la ritrae mentre dipinge l'acciaieria dell' Italsider dall'alto del gasometro. La foto è bruttina, scattata in condizioni non ottimali, riprodotta malamente, ma si tratta di un documento per molti versi eccezionale. La pittrice si volge verso l'obiettivo, la sua espressione è incerta, sicuramente intimorita dall'altezza vertiginosa in cui si trova a operare. Con la sinistra regge la tavolozza, in testa ha un largo cappello di paglia, che la difende dal sole estivo, un grembiule la protegge dagli schizzi del colore e , se non fosse per la pesante ringhiera d'acciaio e per la didascalia che ne indica l'ubicazione, potrebbe rappresentare l'artista mentre dipinge en plein air in un ridente paesaggio, fra gli ulivi o lungo le scogliere, fra glicini e ginestre , ambienti e fiori amatissimi dalla pittrice. Di fronte a lei è l'esile cavalletto da campagna che, a ben guardare, è legato alla ringhiera. Esiste anche una sua testimonianza scritta di questo momento: "Mentre, arrampicata su uno di questi che io chiamo ponti e che "loro" chiamano con nomi tecnici ed astrusi o , col cavalletto legato alla ringhiera per resistere al vento, guardo dai novanta metri di altezza del gasometro i miei soggetti, converso con me stessa. Disegno rabbiosamente strutture, pinnacoli, tubi che rompono il cielo, dipingo, mentre ne respiro l'aspro e velenoso aroma, gas e fumi dai colori più strambi e penso e polemizzo.  
 
Che cerchi tu qui per ore ed ore, mentre gente tranquilla nel tepore degli studi, con il semplice, sublime, sicuro gesto traccia una riga, pochi punti e crea un'opera veramente nuova, che rimarrà nei millenni a testimonianza del nostro tempo? (nota1)  
E' la Cecilia Ravera Oneto dei "paesaggi industriali", una delle fasi più affascinanti e sorprendenti della sua cronologia artistica. Una stagione iniziata nella seconda metà degli anni cinquanta e destinata a svilupparsi in un percorso lungo alcuni decenni che, come altri momenti della pittura di Cecilia, è reso complesso e appassionante dai ripetuti ritorni all'indietro e dalla simultaneità degli itinerari di ricerca che si muovono fra modalità espressive conformi alla tradizione ed esiti innovativi affidati all'esplorazione delle tematiche del paesaggio , quello industriale e quello naturale , e della condizione umana.  
 
 
Cecilia Ravera Oneto era entrata nel mondo dell'arte già da alcuni decenni prima quando, intorno alla fine degli anni venti, fu mandata dalla madre a studiare musica e pittura secondo una consuetudine largamente diffusa nelle famiglie borghesi. Molte ragazzine impararono il disegno, le tecniche pittoriche, in particolar modo l'acquerello, alimentando un vasto mondo dilettantistico destinato alla rappresentazione di tipi, ambienti e affetti domestici. Un mondo da cui non sarà immune la giovane Cecilia - uno dei suoi primi dipinti è il ritratto della nonna (nota 2) -, che però riuscirà rapidamente a svincolarsi dal dilettantismo di tante coetanee, scegliendo la strada di studi seri e orientati professionalmente. Dalle sue note autobiografiche sappiamo dell'iscrizione al Civico Liceo Artistico Nicolò Barabino, di Genova, del diploma conseguito al Liceo dell'Accademia Albertina di Torino , della frequenza interrotta dalla guerra al Politecnico torinese (nota 3). Attraverso le scuole frequentate possiamo rintracciare i possibili maestri di Cecilia: Giuseppe Mazzoni, Luigi Bassano ed Enzo Bifoli a Genova, Felice Casorati a Torino, l'unico citato esplicitamente dalla pittrice nei suoi ricordi. In questi anni dipinge paesaggi di Camogli e delle località di vacanza, ritrae amici e parenti - tra cui la mamma colta sul divano nel salotto buono all'ora del tè-, i bambini che giocano, un nudo femminile pensando a Renoir, si ritrae con i pennelli e la tavolozza in mano elegantemente agghindata con una collana di corallo. 
 
Lavora come disegnatrice all'Ansaldo, nel dopoguerra insegna, sposa il medico Mario Ravera che raffigura in Lo Studioso (1948) , oggi alla Galleria d'arte moderna di Genova Nervi. Si potrebbe dire che alcune delle ricerche destinate a orientare le successive stagioni pittoriche siano già presenti in queste scelte esistenziali. Nelle opere giovanili Rossana Bossaglia individua una ispirazione "neoimpressionista" o di quel gusto "neofauve" affermatosi in Europa negli anni trenta. (nota 4)  
 
Dipinge con intensa sensibilità paesaggi urbani visti con una poetica neorealista- Il mercato del pesce a Genova (circa 1954), Via Pratolongo (1956), Quartieri nuovi o Periferia (1957) - naturali - Camogli, scogli dell'Inferno (1945), Schiarita (1946), Uliveto (1950), Lievità primaverile (1952), Autunno (1953), Albero solitario (1954), Fantasia di Ulivi (1954-) ritratti e nature morte. Esordisce nel febbraio 1953 alla mostra Regionale d'Arte con Notturno a Camogli e partecipando alla prima mostra d'arte Città di Camogli. Si dedica alla figura con opere di solido impianto, ricche di colore e di profondità psicologica, come Malinconia e Sogni di Carmela , o Sogni di una lavoratrice (circa 1954) in cui fissa sulla tela il desiderio della rafazza di diventare ballerina; Ritratto di signora (1953), Nostalgia di marinaio (1954), esposto nello stesso anno al Premio Vado Ligure sul tena "il lavoro". E' interessata ai temi floreali, si vedano le Ortensie (1952) e le Dalie (1953), in questo momento ancora intesi come composizioni di oggetti e di fiori che poi vedremo trasbordare da vasi e cornici per diventare vividi cespugli nei giardini, glicini e ginestre, paesaggi di boschi e uliveti. Mostrando notevole attenzione verso il paesaggio, partecipa ad una infinità di mostre e premi di pittura anche estemporanea e, svelando una particolare sensibilità civile e sociale, aderisce alle mostre e ai premi dedicati al lavoro e ai lavoratori, da quello già citato di Vado Ligure, fondato da Mario de Micheli, a quello di Suzzara voluto da Cesare Zavattini. A Suzzara esordisce nel 1954 con Laboratorio chimico , una tela di notevole fattura dedicata al lavoro femminile e alla ricerca scientifica, che rappresenterà uno dei suoi maggiori e più ardui interessi tematici.  
 
 
 
Nel 1954 Cecilia Ravera Oneto tiene la sua prima mostra personale alla Galleria Rotta di Genova, presentata da Elio Balestreri che segna, almeno a giudicare dalle parole del critico, il ritorno della pittrice a un ambito più tradizionale dopo aver superato una fase "tormentata dalla ricerca, in un geometrico ritmo compositivo e approdata coì ai lidi dell'astrattismo". (nota 5)  
Lidi, a dire il vero, abbastanza generici e lontani, se per astratte erano definite alcune pitture risolye per piani geometrici, a tacche di colori piatti tra le quali traspare la preparazione di fondo come Notturno a Camogli e Camogli. In realtà, considerata la pittura del momento svolta nell'ambito di una generosa ricerca di effetti tonali, di tenuità paesistiche e dolcezze domestiche, il rapporto di Cecilia con l'astrattismo sarà, come vedremo, molto meno eccentrico di quanto possano far pensare le opere di questo periodo. E' un po' come se Cecilia cercasse una sua cifra che, prima di essere formale e linguistica, sarà concettuale, basata sulla scelta dei soggetti sui quali modulerà la sua tastiera espressiva, variando e mutando i codici di rappresentazione e di racconto dal realismo più convinto a quello che sarà il suo dissolvimento e la sua negazione. Negli anni cinquanta supera, se effettivamente sia esistito, qualsiasi indugio verso l'astrazione, per imboccare con decisione la strada del realismo, quella che i premi di De Micheli e Zavattini, ma anche di critici genovesi come Angiolini, Ghiglione o Migone, pensano in funzione antagonista alle tendenze astratte nella grande polemica del momento. Una più attenta lettura critica degli anni del dopoguerra ci deve insegnare che non esiste una sola maniera di essere "moderni". Anche quegli artisti che si ponevano il problema di creare un linguaggio facilmente comprensibile, capace di raccogliere, interpretare e trasmettere pensieri, aspirazioni e valori ad un pubblico più ampio e popolare erano altrettanto moderni degli altri che, spesso animati dagli stessi propositi ideali, esploravano e impiegavano codici linguistici di segno opposto. Credo pertanto che vada corretta la collocazione di Cecilia Ravera Oneto nell'amboto di un novecentismo attardato o di una scarsa attenzione alla modernità - critica che, come lei stessa ricorda, le è stata più volte rivolta (nota 6) - come va respinta la considerazione della sua pittura come quella in cui "non c'è alcun interesse per le questioni sociali" e, addirittura, "per la condizione esistenziale dell'uomo". (nota 7)  
 
Cecilia vive e partecipa pienamente al suo tempo, un tempo in cui l'arte attraversa una lacerazione in quel momento insanabile fra la figura e la sua negazione, tra il realismo e l'astrazione. Così come segue e partecipa alle vicende della cultura, della politica e della società nel momento difficile ed esaltante della ricostruzione postbellica del Paese.  
E' in questa congiuntura epocale che va esposta ed esaminata la pittura che Cecilia Ravera Oneto elabora con assoluta individualità in questi anni. Un'originalità che la porta a ricercare la sua cifra collocandosi tra gli artisti che, avvertendo l'esigenza di un impegno civile, indagavano strade nuove per rapportarsi con il pubblico, guardando al tempo stesso al mondo del lavoro e alle " fatiche, le ansie, le preoccupazioni, le delusioni, ma anche le fatali conquiste delle giovani generazioni uscite turbate, ma anche sperimentate dalla tremenda guerra" come ad esempio scriveva Emilio Zanzi per il premio Vado Ligure del 1952. (nota 8)